martedì 4 marzo 2008

Piera Mattei INTELLIGENZA e FEMMINILTA'

Sintesi dell'intervento a una tavola rotonda sul tema: ancora contro le donne, perché? Dicembre 2007

A questo interrogativo potremmo dare due tipi di risposte: la prima, per così dire, scientifica, la seconda, etico-storica e, in definitiva, politica.

La prima risposta è che nell'uomo al di sotto del cervello più propriamente umano, si situa, e srotola le sue spire, quel cervello rettile che conosce l'uso della forza per aggredire, una forma d'intelligenza beluina che permette di profittare di chi si presenta fisicamente più debole. I motivi per cui questa violenza si scatena sono molteplici, ma di certo, in una psicologia della forza e del possesso, percepire l'Altro come non appropriabile, non domabile, è uno dei sentimenti che scatena l'aggressione, anche collettiva, anche istituzionalizzata.

La seconda risposta la enuncio con le parole di Dostoevskij: "la civiltà ha reso l'uomo più sanguinario di quanto non lo fosse un tempo".

Qui certo il riferimento primo è alla guerra.
Si dirà cosa c'entra la guerra con la violenza sulle donne? Invece mi sembra evidente un forte legame, da quando lo scontro non è più tra forze ritenute equiparabili, ma si combattono guerre del tutto asimmetriche. Perché la natura finisce dove comincia la cultura e la guerra è un prodotto della nostra cultura e il modo di fare la guerra cambia nella storia. L'orrore, la violenza, la volontà del più forte, non che non fossero esistiti anche prima, ma sono diventati, per così dire, "culturali", sono diventati anche spettacolo, film o ripresa dal vero spesso irriconoscibili.
Sotto questo profilo la violenza che si consuma sulle donne è una variante della violenza che si consuma sull'inerme.

Siamo quindi tornati alle donne, e a quell'avverbio, "ancora". Certo la violenza la subiamo perché, almeno mediamente, "ancora" il corpo delle donne è più debole di quello dell'uomo ed è più debole anche dal punto di vista emotivo, perché, culturalmente, da millenni le donne hanno amato ma anche subito gli uomini.
Si tratta "ancora" di uno scontro fisico primordiale, ma anche culturale. Ogni volta, giustamente, c'indigniamo, ci sentiamo minacciate, ma non da ora, proprio le basi stesse della vita culturale sociale e religiosa si sono rese responsabili della violenza sulle donne. E la religione in particolare, non come sentimento e tentativo di elaborazione del mistero, ma come organizzazione culturale, per lo più maschile, è posta in causa.

Avevamo detto che i motivi che scatenano la violenza sono infiniti. Qui vorrei ricordare due casi particolari, storici, due figure emblematiche, due emblemi della forza umana e intellettuale.

Molte sono le somiglianze tra le due figure che ho scelto: Ipazia e Giovanna D'arco.
La storia di queste donne accusa come protagonisti della violenza proprio il sistema sociale, culturale e religioso nel quale – soprattutto in molte religioni e, occorre ricordarlo?, in tutte le religioni monoteiste – le donne sono in posizione subalterna, sospettate di essere inferiori e in facile combutta col maligno. Tuttavia, e questo ci interessa particolarmente, perché è controproducente sentirsi vittime, esalta in positivo un modello di femminilità che pone come valori fondamentali l'intelligenza e la sua libera espressione.

Non a caso delle due donne esemplari di cui parliamo si sottolinea la verginità, non come merito morale, ma come presupposto della dedizione a un progetto diverso dalla procreazione. Vorrei insinuare che, se anche queste donne, contro il dato storico, fossero diventate madri, lo sarebbero state senza esaurire il loro progetto umano nella funzione di riproduzione e di allevamento dei figli.

Due figure emblematiche della storia, per le quali l'accusa che le condusse a morte violenta e "orribile", fu più o meno esplicitamente, quella di aver valicato i limiti dentro i quali la cultura patriarcale allora rinchiudeva (ma oggi, anche se diversamente, ancora rinchiude) le donne.
Circa mille anni le separano.

IPAZIA E GIOVANNA LA PULZELLA

Ipazia, è figlia di un matematico che aggiunge a un suo libro note filosofiche a firma di Ipazia, "mia figlia". Ipazia è molto bella e estranea al richiamo sessuale, cioè vergine, ma vive in mezzo agli uomini. Ama uscire e discutere con tutti di filosofia per le strade, avvolta nel mantello dei filosofi.

E' importante questo dettaglio dell'abito, perché spesso la cultura ha visto con grave sospetto e accusato le donne di vestire abiti maschili, ma qui, come del resto nel caso di Giovanna la Pulzella, si tratta di abiti che corrispondono a un'attività che richiede particolare forza, intellettuale, nel caso di Ipazia, d'intelligenza e coraggio nel caso di Giovanna. Con Ipazia si era nel periodo in cui il cristianesimo s'andava imponendo come religione obbligatoria, coercitiva a tutti i cittadini dell'impero (editto di Teodosio), e questa donna libera, che continuava e approfondiva la tradizione della cultura filosofica e scientifica di Alessandria, fu presa di mira dal vescovo di quella città che gli scatenò contro una setta di fanatici. Fu trascinata da una folla di uomini in chiesa, e lì, da credenti cristiani spogliata e uccisa a colpi di tegole. L'uomo che volle, o almeno non si oppose, a quella fine ingiuriosa era e rimase il capo della religione cristiana in quella città, senza subire alcuna conseguenza dell'orrore scatenato, perché anzi fu proclamato santo e la chiesa lo onora col nome di San Cirillo d'Alessandria.

Dopo l'uccisione di Ipazia, Alessandria venne disertata dagli uomini e dalle donne di cultura. La storia d'Ipazia fu rimossa a lungo e nonostante fonti varie, anche cristiane, narrino la sua crudele storia, anche come giusta punizione, nell'Ottocento si finì addirittura per raccontare la sua fine come quella di una vergine cristiana.

Del fenomeno Giovanna d'Arco si sono date molte interpretazioni. Quella tradizionale fa di lei una pastora in tutto ispirata da voci celesti.
[...]
E tuttavia chiunque fosse Giovanna, figlia di pastori o di regina, sottoposta a interrogatorio per eresia, seppe con la sua sapienza teologica tenere testa al tribunale, ma infine dall'accusa di vestire abiti maschili non riuscì a difendersi.

In entrambi i casi, Ipazia e Giovanna, avevano valicato i limiti che la cultura (maschile) imponeva e furono, fondamentamente per questa colpa, giustiziate da uomini che si ponevano, da loro stessi, dalla parte della giustizia e della "santità".
Le loro storie sono vere, ma sono anche "miti" che aiutano a comprendere dinamiche che ancora oggi attendono di essere sciolte, modificate, nella prospettiva di un'etica più compiutamente umana.
( Piera Mattei )

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