domenica 5 settembre 2010

Laura Rainieri – Angelo pazzo e altri racconti – Ex cogita editore 2007

Vorrei cominciare, parlando di questo libro, dal piacere che la lettura me ne ha dato. L'ho letto più volte, trovando ogni volta il sapore del giusto ritmo, dell'intelligenza narrativa.
Non sto parlando del libro perfetto – non so neppure se esista – ma di un libro dal quale parla una voce originale, che si fa ascoltare con attenzione, spesso con ammirata meraviglia.
I personaggi, i temi, i luoghi sono variati ma mai discordi. Non è difficile intessere, tra i vari racconti, raccordi e rimandi, alcuni proposti dall'autore. Fondamentale quello che si riferisce al nome Marta, già presente nella precedente raccolta, alter-ego di chi tiene in mano le fila del racconto, strumento ottimo, sul piano della resa, per creare distanza, soprattutto quando il tono potrebbe scivolare verso il melò. Vedi il primo racconto, Clelia, primo anche cronologicamente, mi rivela l'autrice, che si chiude sul rimpianto per la fine tragica di un'amica d'infanzia ricca e bella.
La posizione subalterna di Marta rispetto alle persone di bell'apparenza, soprattutto se longilinee e bionde, è un tratto che serpeggia nel libro, con ingenuo pregiudizio dei personaggi verso certi archetipi, per cui biondi sono gli angeli, e le madonne e i Cristi, ma anche le regine e le principesse. Quest'atteggiamento è alla base del racconto L'ultimo guancho, che dà il titolo alla raccolta precedente dove la protagonista proietta su un piccolo ristoratore canario la personalità di Glenn Gould, per la complessione chiara del volto e delle mani, per una questione di pelle, quindi, non certo per una disposizione eccezionale all'esecuzione pianistica, di cui nel racconto non v'è cenno. Racconto che ci dice forse anche qualcos'altro: che non ci innamoriamo di chi ci sta di fronte, ma di un fantasma che passa rapido con una carezza sfuggente. Ci innamoriamo di fantasmi, del riflesso di noi stessi colto nello specchio di fronte, come racconta la parte iniziale ed essenziale di Fiorediloto.
Ma, lasciando da parte Marta, veniamo a un'altra proiezione in un personaggio alla terza persona. Il racconto s'intitola Nibelungenstrasse, e racconta di una donna che raggiunge in Germania, dove lui vive e lavora, il figlio ricoverato in ospedale per una malattia che lo spossa ma difficile da diagnosticare. La protagonista, esibendo le sue predilezioni culturali, non lascia di sottolineare che è stata lei a inculcare nel figlio l'amore per quel paese, che quell'amore lui l'ha poi stravolto, sviandolo dalla cultura, dai libri e dalla musica, per rivolgerlo a potenti marche automobilistiche. Eterogenesi dei fini di un'educazione, che getta un raggio di autoironia sul personaggio. Che qui, come del resto dovunque in Laura Rainieri, è un personaggio alla terza persona, ma non ha questa volta un nome proprio ma un nome di ruolo, monumentale direi: Madre, con la emme maiuscola. Questo permette il distacco narrativo che è essenziale a questa scrittura e fa giocare l'ironia e l'autoironia con la partecipazione palpitante, senza scadere nella retorica o negli esiti buffi che caratterizzano, nei racconti a lieto fine, quindi, secondo i canoni antichi, nella commedia, la descrizione dei rapporti affettivi tra madre e figlio maschio adulto. In realtà – e lo rivela, all'avvicinarsi della protagonista all'ospedale, la lenta decrittazione di quel nome "Krankenhaus" dalla lingua straniera – il figlio è, soprattutto un amato estraneo, per cui ogni ipotesi di malattia, anche quella per definizione impronunciabile, è possibile, ma, fatto ancora più grave, non è più lecito a lei, ormai, fare al figlio quelle domande che potrebbero rassicurarla. Nello sfondo del rapporto tra Madre e figlio due personaggi grotteschi, due anziani malati cronici, legati alla loro malattia e ai loro vizi, fastidiosi nel loro chiacchiericcio, per la Madre solo rumore di fondo, per il figlio scambio di vuote battute "cose rozze e semplici, non si sanno tenere è una cascata continua".
La rozzezza che confina con la brutalità, la bizzarria che confina con la stoltezza, qui nello sfondo, diventa tratto protagonista nel già citato Fortunato Soldi, in La Rossa e, almeno nella parte iniziale di Angelo Pazzo, cioè i racconti che fanno riferimento a personaggi di un non identificato paese della Bassa padana. Un realismo che dilatando lo sguardo spietato sfocia in un espressionismo che squarcia sorrisi, dilata addomi mette in risalto gambe senza caviglie e gonfie di vene, groszianamente, direi, ma qui non siamo tra la crassa borghesia tedesca, qui siamo tra contadini e paesani, fittavoli e vinai nell'Emilia anni '50-'60.
La voce che racconta si sta facendo interprete della voce di un piccolo paese, creando, senza sentirne il peso o la responsabilità dirette, miti negativi, favole crudeli.

Personaggi da Amarcord. Ma, secondo una logica localistica, che oggi sembra dappertutto avere la meglio, la Rimini di Fellini è all'altro estremo della via Emilia rispetto alla Bassa di cui qui si tratta, quindi un mondo diverso? Fellini diceva di se stesso "un artigiano che non ha niente da dire, ma sa come dirlo". La forma, l'amore per la forma. Certo: qualcosa realmente era esistito del mondo che Fellini ricordava ovvero lui, nel ricordo l'aveva inventato, per lasciarcelo incorruttibile, talmente perfetto da diventare topos, inciso tra gli archetipi culturali? Stessa domanda, con i dovuti distinguo, per questo mondo rievocato dalla Rainieri. Anche qui un mondo libero e strampalato, una volontà di vivere la vita con pienezza e prepotenza: sesso, cibo e – marginale invece in Fellini – un grande appetito di denaro.
Rimane in questi racconti paesani, inesplicabile sul piano narrativo, qualche incrostazione di antichi livori, di cui l'autrice sembra considerare secondaria la consapevolezza, come quel sottotitolo di "il comunista" per Fortunato Soldi, epiteto spiegato poco e, direi, malvolentieri. Quest'uomo non fa mai niente di "comunista" mentre è evidente il fatto che ci troviamo di fronte a un individuo ripugnante, dedito solo all'acquisto e non redimibile, secondo un rigido presupposto deterministico : "Ognuno nasce con la sua pelle che mantiene coriacea per tutta la vita. Ogni cambiamento è fluttuante come piegolina d'organza." Questa idea che ognuno è ciò che è una volta per tutte, che presuppone anche si sappia chi si è e chi sono gli "altri", come è la gente da questa o da quella parte della nazione o del mondo, mi pare sottinteso in tutti i racconti di Laura Rainieri e sul piano narrativo fa giustizia di remore e dubbi conferendo al tempo stesso la massima forza alle sue caratterizzazioni.
L'autrice guarda a questi personaggi con riprovazione ma finisce per farne, nel loro genere, delle creature perfette. Soprattutto la Rossa ha un suo incrollabile "progetto di vita", un arrivismo che – lo ignora certo il personaggio tutto istinto – ha finezze machiavelliche: da quella che definirei economia della morte, cioè profittare dei morti per conquistare nuovi spazi, all' "infilarsi negli interstizi", con la malignità, con la chiacchiera. Quella capacità che fa, in ambiti più vasti, la fortuna dei politici. Dante non avrebbe saputo in quale girone dell'inferno situarla questa Rossa, talmente la sua perversione è polimorfa, Laura sembra divertircisi un mondo. In particolare il trattamento lunghissimo e, a suo modo, raffinato, che la Rossa riserva ai corpi maschili mi sembra metafora di quanto lei riserva alla lingua, perché la lingua è per lei non solo strumento di comunicazione ma anche gioco, divertimento, acrobazia da circo. Laura non solo s'identifica con la voce di un intero paese che racconta il personaggio ma raggiunge una sapienza ventriloqua della lingua, perché quanto scrive, la sua incisiva crudeltà sembra spesso uscire da lei, non dico senza che lei ne abbia piena consapevolezza, ma certamente al di là delle intenzioni.
Temo non si riconoscerebbe in una mentalità che, come a me sembra invece evidente, guarda alla coppia uomo-donna, moglie-marito con grande pessimismo. Marito è il vecchio Ninnolo, un fabbro nientemeno che di fattezze minute, che la Rossa vezzeggia sulle ginocchia, prima, e fa morire, sembra, di sete, poi. Ben presto delusa, maltrattata e abbrutita è Imelda, la irretita moglie di Fortunato. Il matrimonio è, nella chiusa di Fiorediloto "male minore" per non affogare nel mare di solitudine di sperse periferie; è delusione e tradimento in Clelia. Se di sesso, molto e con bravura si parla, per l'amore pare non ci sia posto. Amore è solo quanto può essere intravisto nel riflesso di uno specchio e si piange l'allontanamento non di una persona, ma di ciò che si è visto. L'unico sentimento autentico sembra l'amicizia tra donne, rapporto che Marta, personaggio di cui si è già parlato, vive nella posizione di osservatrice incantata della più piena femminilità dell'altra (Clelia, Fiorediloto), non senza esiti di amara rivincita finale.

Un'altra voce c'è in questi racconti, che rimane interna e celata dentro la storia. Racconta soprattutto l'ambivalente passione per luoghi estremi, che hanno solo indirette indicazioni geografiche, in realtà, sono luoghi simbolici dove l'ambiente circostante è ridotto alla sua essenza. Sto parlando di Callura e di Circolo polare artico. Il primo racconto, che da indizi diversi, dovrebbe svolgersi in Spagna, ha un inizio solare, luminoso. La luce ha, nel suo significato più usuale e fondamentale, un valore positivo, ma rapidamente quella valenza si tramuta nel suo contrario. Presto è chiaro che ci troviamo in un giallo in cui il killer da cui occorre difendersi è misterioso e onnipresente, come la luce del sole e il calore che produce. La narrazione scivola impercettibilmente dalla contentezza della protagonista per aver raggiunto una nuova meta, dalla quale si riprometteva svago e divertimento, alla comprensione del vero significato del nome del paese, che difatti non aveva mentito sulla sua identità. Metafora che racconta il potere sottovalutato del nome, la distrazione che ci fa trascurare i segnali che dovrebbero metterci all'erta. Callura come demonio, il mostro da cui fuggire si presenta col suo vero nome, inalberando l'unico consiglio possibile (dove si vive solo di notte), il cui assoluto significato viene frainteso. Solo una grande capacità di resistenza, brillantemente narrata, permette la sopravvivenza nel caldo davvero infernale e quindi la fuga.
Più complesso l'altro racconto, dove riecheggiano l'episodio biblico di Giona e Melville nel mistero aspro dell'Oceano, al nord. Un racconto che deve essere lieve come la neve, ma come tutti sanno, se la neve non si scioglie, se il gelo la tramuta in ghiaccio, niente è più pesante di quella sostanza che prima appariva leggera. Niente è più estremo del paesaggio e del clima al Polo Nord. Deduciamo da diversi segnali, tra cui la citazione della corrente Malestom, di trovarci in Norvegia, paese dei fiordi, ma qui mai si fa riferimento a quel paese. Si parla solo della natura, come se la protagonista vi si trovasse da sola. Da sola, lei con le montagne, le isole e il mare. Un viaggio in barca di notte. La barca, come il Pequod è di modeste dimensioni, ma non ci sono né il capitano Achab né il resto della ciurma. Con il sole che sfiora l'orizzonte ci sono le orche intorno che fanno paura, senza forse volere fare paura (visto che forse si tratta di un viaggio organizzato per incontrare la fauna marina, e chi conduce la barca sa a che distanza tenersi) e loro del resto, le orche, si allontanano a due a due per le loro dolcezze notturne. Ma orca richiama Orco, come nelle fiabe fa paura e "noi abbiamo infranto". Così scrive senza complemento oggetto, alludendo forse a un divieto di potenze superiori, forse solo come reminiscenza letteraria della crudeltà di Moby Dik. Il divieto potrebbe alludere anche a quello di non invadere il territorio dei grandi cetacei, che in Norvegia sono stati cacciati per secoli? Di questo non si fa cenno, nessuna identità politica o sociale del luogo interferisce qui con la riverenza, la paura, la meraviglia, il senso di colpa, sentimenti assoluti che nascono dalla protagonista e sulla protagonista ricadono. Vietata ogni possibile uscita da sé. All'avvicinarsi di un'orca, Marta s'inginocchia nella barca: è certamente in presenza di Moby Dik, non pensa ai diritti infranti dei grandi cetacei.
Torna qui la passione per la comparazione tra luoghi e atteggiamenti , postulati diversi o addirittura opposti. Al circolo polare artico bisogna dimenticare il laghetto Mediterraneo, le coste lambite dalle calde acque, la macchia verde, la dolce scogliera per il sole e l'amore. La passione per i paesi con clima opposto a quello del Mediterraneo, cose che solo a pensarle mettono in corpo frenesia e timore sono all'origine di questa avventura che Marta compie proprio per amore di assaggiare e configurare l'opposto, espresso nell'idea dello scambio di casa. Poi avviene il fatto inimmaginabile. Il mare in una eccezionale burrasca si porta via porti e aeroporti. Marta deve imparare a vivere, per sempre, nel freddo, trasformarsi dalla persona che guarda il diverso, con senso di curiosità e di avventura, a chi deve pensare a sopravvivere nelle condizioni che la natura attorno le concede, adattamento che in Callura riguardava lo spazio di un solo, anche se terribile, giorno.
Amore per la metafora e per la trasfigurazione fantastica di canonici intrecci di relazioni ed emozioni, quali i rapporti tra fratelli di fronte alla morte della madre e all'eredità che lei lascia, si configura infine in I draghi.
Rende la lettura di questi racconti così godibile una lingua fresca, una mente libera, – anche quando invece riferisce di un mondo di grande chiusura. Ma a quel mondo, mentre lo schernisce, è legata l'autrice, perdutamente in contraddizione.
Curiosità, amore e metabolizzazione della cultura, anche quando echi classici ricadono sulla pagina, nell'uso del linguaggio giovanile o goliardico (c'è ad esempio un "pietosa insania", mutuato dal Foscolo, a commento della gelosia della giovane sfortunata moglie per Fortunato Soldi). La scrittura e la lingua di Laura Rainieri fa tesoro di tutto e lo rigenera in racconti che si scolpiscono nella memoria.

Piera Mattei

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