domenica 21 luglio 2013

Rita Iacomino – Poemetto tra i denti – Edizioni Progetto Cultura 2012 Una lettura di Piera Mattei





Alla prima lettura di Poemetto tra i denti l’impressione è quella di una poesia scritta con orecchio musicale, con sicuro e naturale gusto linguistico. Una voce matura, severa, modulata da venature di sarcasmo.

Ci piace assaporare un libro e trovarne le ragioni, con gli organi di senso (la vista, l’udito) prima, con la pazienza delle connessioni e dei rimandi poi, con un procedimento critico che un poco assomiglia a un’indagine poliziesca. Veniamo quindi al senso della lettera, delle parole, al loro significato e alla loro giustificazione: questo Poemetto tra i denti sottintende, come scrive nella prefazione Elio Pecora, un pessimismo assoluto, prossimo a Qohèlet, ai borboglii di Beckett?

Sì, certamente, alcune di queste poesie ci riconducono all’Eterna Ripetizione, nella prospettiva di una negatività cosmico-storica. La poesia, che di seguito citiamo per intero, ci sembra la più rappresentativa di tale messaggio, quasi una riedizione, pacatamente disperata, delle parole dello scrittore biblico:
Così le cose semplici
se ne vanno per il mondo
figliano, soffrono, semplicemente muoiono.
Le altre cose
quelle appuntite, che non danno tregua
camminano sfiorando i muri
mai che s’incontrino, mai un saluto;
figliano, soffrono,
semplicemente muoiono.

Di tono più amaro, con riferimento al liquame fossile, all’accumulo di un niente cui è riducibile la vita, è la poesia Se fossi in te me ne andrei, dove andarsene coincide con l’uscire di scena, ma non con serena attitudine stoica o nella prospettiva di un’orientale accettazione della Ruota della vita, ma quasi con ribrezzo e risentimento. Anche l’amore è, infatti – e sembra di riascoltare Schopenhauer – un inganno, un’invenzione / di questa vita querula / sta lì a dirci che nostra madre è terra / che prima ordina e poi disfa.

Proprio in questa poesia l’imperativo Acconsenti, che chi scrive rivolge a se stessa, non è credibile per l’amarezza degli ultimi due versi: troverà posto ciò che siamo stati / un reperto anatomico tra i cani. Andarsene non sarebbe comunque, non potrà essere mai, una faccenda pulita. Al massimo produce poca polvere, ma sempre materiale di scarto:
Siamo mobili di legno disposti in stanze ariose
In primavera la tarma arriva scava mette l’uovo
E ti ritrovi dentro trame misteriose
E sotto solo polvere

Ma ci sono altre poesie in cui dobbiamo leggere – e anche in questo caso gli illustri precedenti non mancano davvero – il bisogno di riscatto, se non la tentazione di una rivalsa. Per questo il poemetto è pronunciato tra i denti.
Come dire che non è solo la vita, la Natura leopardiana ad essere maligna, ma gli esseri umani, gli uomini in particolare. L’autrice, la donna che parla, solo obbedendo all’istinto, femminile, materno, li accoglie talvolta, ma non li assolve: inoltre, vedi, son donna e a me è laterale / di tanto in tanto una materna vampa.

Proprio nella poesia da cui abbiamo preso l’ultima citazione troviamo il riferimento alle bandiere, al sociale e al comunismo, quest’ultimo non invenzione umana, ma idea che sta attaccata alle fibre del creato, se identica è la pioggia che ci bagna.

Poesia civile, rivoluzione, sono idee che si agitano in tutta questa prima parte del libro, a cominciare dalla pagina d’apertura, e la polemica è rivolta a qualcuno che di quelle idee ha forse profittato, un uomo, maggiore d’età e forse di energie, d’esperienza:
Anch’io fui sulle barricate
non sopra ma accanto  
ad altri lasciai spazio per gli allori.
[…]
Lolita, restai accanto al mio carnefice
finsi d’amarlo.

Due versi, gli ultimi di questa citazione, che non sono forse i più belli della raccolta, ma sono significativi del sentimento sottinteso in queste pagine. Un’accusa che non comporta assoluzione verso chi la pronuncia, se l’eroina in cui identificarsi non è il più innocente tra i personaggi della letteratura: non una vittima, ma un’immatura e perversa seduttrice.

Ancora, per sottolineare la polemica sentimentale e ideologica che cerca di decantarsi in queste pagine, vorrei citare un altro “errore di giudizio” in una delle poesie più belle della raccolta, la V della prima parte. Qui il – presunto – comportamento di un albero è visto in opposizione a quello degli uomini, quasi in contraddittorio con la Ginestra leopardiana:
Guarda l’albero nel parco.
Dice forse tu all’altro?
Eppure se gli costruisci un muro sopra la radice  
quello devia i rami e nella deviazione vince,  
trova di nuovo il sole.
Non fa la rivoluzione  
nemmeno si scandalizza  
se tutt’intorno il parco muore,
non si organizza.  
È mosso ma non muove: ci ridicolizza.

Questo è l’esempio di un discorso in cui il pensiero di chi scrive è prestato alla similitudine con tanta convinzione che “quasi” ci convince. Una poesia dobbiamo accettarla così, la sua immagine come ci viene proposta, la sua passione come si agita dentro, ma fossimo in un dibattito saremmo costretti a dire, e non solo per restare accanto ancora una volta al grande recanatese: sì invece, l’albero dice tu all’altro, sembra proprio abbia bisogno della vicinanza di suoi simili. Eppoi, se non vai con l’accetta ad abbatterlo, anche se come la ginestra è solo un arbusto, con poco rumore, muove la terra, rompe le pietre, il cemento. Per anni, se ne ha la forza, per secoli. Forse sì, ci ridicolizza perché i suoni che emette mentre così continuamente si muove sono quasi impercettibili, mentre noi, anche per molto meno, ci muoviamo con chiasso.

Delle molte poesie dedicate all’arte scegliamo Tarquinia, dove la morte – come nelle altre, più forse che nelle altre poiché si tratta del rilievo su un sarcofago – è presente, come ovunque e sempre, ma attende il suo tempo, oltre la porta, senza turbare per il momento la promessa di vita tra gli sposi, l’atmosfera di festa:
I coniugi si passano l’uovo  
da una mano all’altra
considerandone il tepore  
[…]
E vibrano gli auleti e danza  
la servetta,  
guardando insospettita l’altra porta
che chiuderà per sempre
la musica nell’ombra.

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